Il Crack! Fumetti dirompenti, è un festival internazionale che dal 2005 a Roma ospita una miriade di artisti da tutto il globo, fumettisti, illustratori incredibili o collettivi, che ruotano nel panorama dell’autoproduzione.
Per farla breve, il Crack! è il punto cardine per tutta la scena underground di arte stampata in tutto il pianeta Terra.
Ogni anno, solitamente nelle ultime settimane di giugno, il Crack! prende forma all’interno del Forte Prenestino.

Altro punto fermo dell’universo antagonista e dei centri sociali, il Forte è occupato ormai da trentaquattro anni e per molti di noi rappresenta una vera e propria seconda casa, dove ci siamo fatti le ossa tra concerti, pogate, cortei e iniziative.

Il festival dura solitamente quattro giorni, ma già da settimane prima, il quartiere di Centocelle diventa un formicaio di artisti, che grazie ai laboratori presenti nel Forte stesso, danno modo di stampare, disegnare o comunque dare una mano affinché il Crack! prenda forma.

Vengono aperte le celle sotterranee della ex-fortezza affinché si realizzino decine di installazioni che rendano quel luogo scuro, una delle più incredibili esposizioni artistiche che possiate immaginare.

Oltre alle celle sotterranee, tutto il resto dell’immenso spazio del Forte è destinato ad altrettanti artisti o collettivi, laboratori, che espongono i propri lavori su banchetti, molti ben attrezzati alcuni, altri (come il nostro hehhe) super improvvisati, ma dove potrete trovare una qualità di lavori, stampe, fumetti e illustrazioni che lascia senza fiato. Si chiacchiera tra “dirimpettai”, si parla con chi viene a vedere i tuoi lavori su quale tecnica è migliore per stampare questo o quel progetto, si beve qualche birra (mmm, forse più di una, ma non ricordo bene) e si condivide qualche pizza tra i più.

Noi siamo al terzo anno di partecipazione al Crack! e ogni anno non vediamo l’ora che torni quella settimana per poter vivere di nuovo il festival, insieme ai tanti compagni di viaggio.

Ora bando alle ciance, vorremmo fare qualche domanda a Valerio Bindi, uno degli ideatori e organizzatore del festival.

Ciao Valerio, vuoi raccontarci come è nato il Crack! e perchè avete scelto questo nome?

Il festival nasce dopo molti esperimenti fatti nel corso dei novanta, il Forteprenestino CSOA in quegli anni ha sfornato decine di progetti e possibilità, Crack! deve tutto a quelle esperienze.

Torturati malmenati e uccisi a Genova durante le giornate del G8, i Centri Sociali e il movimento trasversale che si era ritrovato lì, affrontavano un momento critico. Crack! è lo sparo nel deserto, il suono che spezza quel silenzio. Viene da Hugo Pratt. Ma ce lo siamo portato a casa noi. Le immagini in quel momento potevano parlare più di ogni altra cosa pensammo. Era così e da lì altre cose sono ripartite.

 

Il festival si è sempre svolto all’interno del Forte Prenestino, giusto? Pensi che sia un legame imprescindibile il vostro? Qual’ è l’essenza di questo incredibile connubio che vi tiene legati da ormai più di dieci anni?

La fortezza è un luogo magico pieno di storie di fantasmi di immagini. Un condensatore immaginario reso reale da una ciurma di piratesse e pirati disarmati. Io sono lì da trenta anni e passa a organizzare cose insieme. È un amore certo, ma anche una comunità operante che immagina ogni anno e sogna. Che fa politica attraverso modi e lingue che riescono a reimmaginare la realtà.

È un legame Forte.

E poi c’è da dire che sia il Forte che Crack! non sono immutabili ma si riorganizzano di volta in volta, le persone dico, possono cambiare. Gli errori che facciamo possono essere sempre diversi.

Anche questo mutamento continuo è importante: non riusciamo ad immaginare un’altra possibile casa per questo caotico coacervo di menti imprendibili che ogni anno per quattro giorni racconta molti altri mondi possibili.

Ma non immagino nemmeno altre persone come quelle che ogni anno si fanno in quattro per renderlo possibile senza altro motivo che liberare occhi e menti all’inseguimento di una stampa, di una storia da sfogliare.

Non c’è un altro Forte e non c’è un altro Crack!. Penso che questo li renda inscindibili.

Come dicevamo, le celle sottostanti al Forte, sono un punto fondamentale del percorso espositivo del Crack!.
C’è un motivo particolare per cui, forse il più angusto punto di tutta la struttura, è stato scelto proprio quel punto come “mecca” dell’esposizione?

Non hai idea come fossero messe quando nel ‘91 le ripulimmo per la prima volta il fango accumulato, ma avevamo immaginato questa mostra di stanze d’arte internazionale e non potevamo fermarci. Poi le celle sono diventate il simbolo stesso del quartiere – Centocelle appunto – e sono rimaste il cuore pulsante, il sotterraneo del desiderio.

Non hai idea di che accumulo di racconti potrebbero fare quei muri. Sono narrazione a vignette fatta di mattoni. È quello il posto giusto. Poi non bastava più e negli anni il festival ha dilagato ovunque nella cittadella del Forte.

Il Crack! Ha una propria casa editrice, Fortepressa, vuoi parlarci di questo progetto?

Il primo anno decidemmo che dovevamo ragionare sull’abolizione del copyright, sulle licenze creative commons, e fare uno screening dell’autoproduzione.

Dopo un anno avevamo il primo libro pronto e dovevamo inventarci un editore fantasma e fu Fortepressa, eravamo innamorati del torchio e pensavamo che raccontasse bene la nostra idea del fare da soli la stampa.

Poi ridendo e scherzando abbiamo stampato tante cose. Ma non siamo mai diventati un vero editore, siamo sempre un supporto al festival e al mondo dell’autoproduzione soprattutto anche se abbiamo anche fatto libri bellissimi, tra l’altro.  

Il Crack! Non è solo un festival, ma, correggici se sbagliamo, una rete di individualità e collettivi che portano avanti anche in altre città e in altri periodi dell’anno “linee di fuga che esplodono verso i murales, l’arte pubblica o di strada, la stampa indipendente e artigianale, la narrazione su supporti innovativi fino al racconto orale che si innesta nel segno dei comics”.
Cosa pensi di questi rami sbocciati dal Crack! (Borda!, Ca.Co. , Olè, Zapp, Afa)? E’ qualcosa che ti aspettavi quando hai iniziato questa avventura?

All’inizio tutti ci dicevano di andare ad organizzare un Crack! nella loro città e ne parlavamo anche con tutti e tutte. Ma poi dicevamo dovete farvelo voi. Dovete trovare il posto giusto per farlo e farlo voi con le vostre visioni dandogli il vostro nome, ma tenendo fede ad alcuni principi fissi.

No inviti ma autoconvocazione. Ospitalità aperta, accoglienza e cibo garantito a costi minimi o zero. Disponibilità all’autogestione degli artisti, no curatori o spazi progettati a priori.

E infine, no costi per chi espone: questo permetteva di dare un grosso impulso all’autoproduzione, visto che tutto quello che si raccoglieva durante il festival finanziava alte zine fatte grazie alla rete che si creava spontaneamente.

Abbiamo messo in moto un processo che ha prodotto molte autoproduzioni e finalmente molti festival. Prima in Europa e poi a ruota anche in Italia, tutti con le stesse disponibilità di base. Non sono solo i festival italiani in rete, il Frente popular para la liberación grafica, come viene da noi scherzosamente chiamato, comprende decine e decine di eventi. Credo si a stata una decisione lungimirante quella di puntare su questa ‘federazione’.

Pensi che l’autoproduzione, il D.I.Y, la carta stampata, i laboratori artigianali di stampa,  avranno ancora il loro spazio nella controcultura futura in un’epoca in cui il digitale, il flyeralarmismo, la fanno da padrone?

Senza l’autoproduzione il fumetto sarebbe stato fatto solo dal mercato e il mercato non avrebbe saputo creare innovazione. A partire dalle sue origini, penso a Masereel, fino ad oggi, è l’autoproduzione che ha rimesso in moto ogni volta le cose.

Non è una questione di digitale o analogico ma di mezzi di produzione. Se li gestisci tu ti dai dei limiti che necessariamente non sono gli stessi che ti darebbe un imprenditore. E li superi con altri sistemi anche. Poi l’amore per la cultura materiale certo conta, ma tutti gli autoproduttori del network sono anche abilissimi nel digitale. Non è un rifiuto insomma del medium ma una consapevolezza politica della propria responsabilità creativa, progettuale e produttiva.

C’è stato in tutti questi anni un’episodio bizzarro, strano o anche brutto che ti è capitato di vivere all’interno del Festival e che vuoi raccontarci?

Tante tantissime cose che ho nel cuore e che vorrei poter un giorno raccontare, chissà. Una volta arrivò da Marsiglia un bus di mutanti che ho tanto amato, alcuni di loro si sono stabiliti a vivere nella cattedrale, lo spazio al centro delle celle, e non ne sono mai più usciti. Ci dormivano ci facevano l’amore e continuavano a farla divenire una straordinaria installazione tra le molte altre che realizzarono. Come stare dall’altro lato di un buco nero dell’immaginario che riversava cose continuamente in un ammasso bulimico sensuale. È stata una esperienza nell’esperienza.

Ma praticamente ogni anno ne succede una. L’ultima? Quando facemmo l’edizione Apocalisse anni fa sul flyer c’era scritto in una lingua che non ricordo che era l’ultimo Crack! prima della fine del mondo, c’era disegnato un carro armato zombie in un rosso incandescente. Il mondo non finì allora, ma quel carro armato che bruciava l’ho visto lo scorso anno e quest’anno effettivamente una specie di fine del mondo c’è… ma che il capitale stesse scricchiolando lo sapevamo da tempo.

Qual’è l’artista per cui ti sei “battuto” maggiormente affinché partecipasse al Crack! ?

Ci siamo battuti per fare arrivare al Crack gli artisti e le artiste che lo desiderassero anche se non ne avevano i mezzi, i visti o non so che altro. Se era necessario trovare soldi li abbiamo trovati, se serviva trovare timbri abbiamo quasi sempre trovato pure quelli. Ce ne sono alcuni che hanno richiesto più fatica di altri, per la burocrazia dei loro paesi o perché per esempio non avevano mai avuto l’opportunità di fare il passaporto.

Ce ne sono state diverse di situazioni. Ma solo una volta con un artista tunisino, Thameur, che ora vive a Roma, non siamo riusciti a farcela per quell’edizione del festival.

Per fortuna però abbiamo recuperato.

Stiamo vivendo una situazione molto delicata in questo periodo, legata all’emergenza del Covid-19. Sperando di uscirne quanto prima, come pensi che questo periodo influirà sul Crack! E anche sui lavori degli artisti che ne prenderanno parte?

È un momento cruciale.

Da quello che riusciamo ad immaginare oggi dipende il nostro futuro. Se vivere in una società farmacopornografica o smantellare tutto una volta per tutte e ripartire da un sociale che non vogliamo mai più che sia distanziato.

Per ora si tratta di superare la nottata e facciamo tutti e tutte quello che dobbiamo fare. Ma sappiamo bene che se non troviamo una diversa normalità la prossima volta sarà peggio e poi peggio ancora. E anche il pianeta si sta spegnendo in una lenta pandemia che passa per la consunzione capitalista dell’ambiente.

Ora tutti e tutte lo sappiamo però, lo abbiamo visto e abbiamo visto che si può fare.

Se volessimo da un giorno all’altro si potrebbe fare un altro click. Non per la paura stavolta ma per la fiducia. Noi possiamo lavorare a immaginarlo a mostrarlo a condividerlo, ma dobbiamo pensare come comunità ancora una volta perché succeda. Con i nostri inchiostri e pezzi di carta possiamo far saltare il tavolo.

Ma ci serve anche il resto di noi che sta sparpagliato a fare altre cose altre ricerche e immaginare in altri campi e spazi. Ma che sa che non c’è da scherzare. Il futuro per averlo lo dobbiamo prima immaginare. Lavoriamo, o meglio Non lavoriamo, per questo. Influirà tutto quel che abbiamo vissuto, certo. Anche perché semplicemente se non dovesse influire tutti i modelli di vita non allineati verranno spazzati via da eteronormatività e conformismo, da un capitalismo farmacologico che certo non si cura e non cerca cure per nessuno di noi. Ci teniamo alle nostre vite storte e alle nostre stampe? Diamoci da fare.

Foto di Desirée Sacchiero
Per maggiori info sul Crack! visitate il loro sito